Come una donna antica

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Nelle ultime settimane sono stata una di quelle donne antiche che abitano memorie lontane: instancabile. Donne con le mani sui fianchi, che le fanno somigliare a giare di terracotta; donne con i muscoli gonfi da calciatrici, donne dritte come fusi verso le loro mete, senza tempo per la stanchezza; senza tempo neppure per concepire l’idea della stanchezza.

E poi sono stata leggera, impalpabile, come una minuscola foglia incagliata in una rete e mossa da una brezza sottile, quasi impercettibile. E poi sono stata una grande chef, che muove le mani con la sapienza di una direttrice d’orchestra, proprio sopra la bocca delle pentole fumanti, per far si che il vapore profumato dei cibi in cottura le penetri le narici e le suggerisca quando la magia è compiuta…e una grassa vedova, con abiti neri, insistente sulla propria chiusura, ostinata nel lutto, che indossa, dimessa, il volto di chi ha gettato la spugna…e una pugile, esperta, determinata, abile nell’incassare tanto quanto nel portare a segno i colpi, con passi di danza veloci ed eleganti a circondare l’avversario…e un’attrice fallita con un promettente futuro alle spalle e una serie infinita di numeretti da clown amatoriale da far ridere a crepapelle la bimba piccola piccola…e una veterinaria improvvisata in un villaggio bombardato da chissà quale esercito nemico a vegliare le bestie morenti…

Nelle ultime settimane sono stata mia nonna, pur non avendone la fibra ne il temperamento. Sono stata un titano solitario, la gigante invincibile che sa cosa, che sa come, che sa quando, che sa quanto, che, di certo, non si lascia zittire neanche da Dio, perché ‘Dio, tu questa cosa a me me la devi fare!!!’. Lei a Dio dava del tu e se lo poteva permettere perché lo aveva servito e lo aveva amato con una forza senza pari. Il suo amore aveva un trasporto che non saprei neanche descrivere e che solo ora riesco a sentire sulla pelle pur non comprendendone l’oggetto. Mia nonna poteva abbracciare Dio e dargli del tu: erano amici. Io questo no, ancora no.

Ma ho cucinato i pasti, cambiato i pannolini, fatto la spesa, preso gli appuntamenti, fatto fatto fatto fatto tutto quando si deve e come si deve. Ho dato le medicine agli orari giusti, messo i giusti pigiamini, fatto le giuste poppate, spalmato le giuste creme, consolato pianti, accudito moribondi, accettato la morte, massaggiato pancino, pelato patate, assunto integratori, predisposto mascherine, disinfettato, deterso, ninnato, vegliato, sollevato secchi di acqua calda, smontato, rimontato, svuotato e riempito vaschette…

…in mezzo a un deserto che si allargava come fosse stato una macchia d’olio e diveniva immenso e immensamente silenzioso.

Al giorno 37…pausa…le mani dai fianchi son scivolate giù, pesanti. La schiena si è piegata in un modo un po strano, formando una sorta di gibbo, credo gonfio di tristezza, e la necessità di ‘essere’ è diventata tanto pressante da solcarmi il collo con nuove rughe. Mi son guardata allo specchio ed ero ancora una donna antica, ma non più come mia nonna: ero una gallinella spaurita, con le piume avvizzite, che è scampata alla pentola perché la bimba più piccola della cucciolata se ne era perdutamente innamorata. Sarà l’unica gallina del pollaio ad avere il permesso di morire di vecchiaia. Ce le avete presenti le galline? Chi di voi ha mai trascorso del tempo a osservare ed amare le galline che passeggiano libera sulle aie? Sembrano sempre sorprese o curiose, impiccione che, a colpi di collo, intercettano tutti i pettegolezzi scivolati dai brusii degli umani. Ce ne è una sola che se ne sta in disparte e guarda, malinconica, le altre e sembra voglia dire, con quelle occhiate profonde e acquose, ‘tanto si sa come va a finire!’.

Mentre la cana, faticosamente, lentamente, moriva, io le sussurravo ‘Se tu fossi stata un tacchino, amore mio, ti avrei amata allo stesso modo’. Perché l’amore, quello giusto, sa essere estremamente ridicolo senza vergognarsene. E poi ho cercato di mescolarmi alla ‘maggioranza’ e non c’è neanche l’ombra di disprezzo quando penso a questa complessa e non troppo bene individuabile entità che, per comodità, chiamo ‘maggioranza’. Non ci sono riuscita. Per questo son diventata una donna antica e mi sto trasformando in una giara.

Rubo il tempo dello scrivere alla mia bimba addormentata. Allaccio i fili complessi della mia malinconia per farne un ricamo. Non cerco un ordine. Sono solo una donna antica, che porta dentro di se tutte le sue antenate e, forse, anche la sua progenie. Sono una che fissa le galline con amore, che si sente parte dell’Universo senza rivendicare nessuna superiorità, perciò prova a non calpestare le formiche e non ama strappare le ‘erbacce’ dai vasi. Un tempo sarei stata una strega.

Oggi sono una giara.

 

I rischi che ho corso

Siedo su questa piccola sdraio da spiaggia, pieghevole, e ascolto il tuo respiro che presto non sará piú la canzone della buonanotte, il ritmo del mio sonno, la rassicurazione dai miei indomabili mostri. Siedo sulla sdraietta che ha cullato il mio pancione nell’estate calda e povera della mia gravidanza; sulla seggiolina che mi ha sorretta in riva al mare e accanto a te, a farti la flebo della sera. Impotente. La nostra bimba, mia e tua, Cana mia bellissima, dorme al centro del lettone. Ogni tanto mi cerchi. Io non mi muovo. Perché ho capito da un pezzo qual é il mio posto. Ho corso il rischio di frantumarmi il cuore perché ho amato senza nessuna riserva ed ecco fatto…il cuore si spezza per ricominciare, prima o poi.

Family reunion ❤️

E quante volte ho pensato che avrei ricominciato a scrivere per parlare della creaturina che mi cresceva dentro, per raccontare l’avventura della nuova vita, invece non c’é stato tempo: c’era troppo da fare, troppo da pensare. Adesso mi resta solo il vegliare umile e obbediente, in questa atmosfera apocalittica da pandemia che puó solo appesantire la solitudine. Eccoci quá amica mia, io e te, a fare i conti con la veritá: non é vero che sei il cane di Superman, come mi avevi lasciato intendere in passato. Chissá chi saró senza di te. Non sapevo si potesse esistere prima di te. E quante volte aspetteró il rumore dei tuoi passetti appena dietro la porta. Ti amo spropositatamente: é questo il rischio che ho corso.

I rumori che mi mancheranno…e nella notte dell’Italia blindata, malata, pericolosa…ho nostalgia giá di te e devo resistere, alienata da tutti gli affetti, e non potró rifugiarmi tra le braccia di nessuno (serve un metro di distanza). Saró rifugio per la mia bimba. Saró nutrimento.

Accanto a te c’é la prima tutina di Sole, quella che ti ho portato a casa perché ne imparassi l’odore. Tu mi hai insegnato tutto quello che so sull’amore, tutto, e io ho corso il rischio. Ti ho amata con tutta me stessa e, amando te, son scivolata in altri amori, senza fare conti. Non mi domando il senso; quello, lo vedete tutti, si schiude da solo, come un fiore che sa come che sa quando che sa quanto deve fiorire. Tutti gli amori diventano polvere, perché mai amare dunque? Perché é solo nell’amore che si schiude il senso dell’esistere. Ne sono certa. E sono in pace anche se immersa in un dolore accecante, assordante. Si, diranno é solo un cane e noi, ognuna al proprio posto, ci faremo una risata e scodinzoleremo di compatimento perché noi, io e te, la vita l’abbiamo capita davvero.

Adesso vai. Prometto che me la caveró. Ce la caveremo, io e Sole, sognando spesso di te, delle tue marachelle, di quel tuo muso buffo da riempire di baci. Non siamo speciali, noi due. Siamo due tra milioni di esseri costretti a dirsi addio perché é cosí che va. Ma io non mi fermo quá, é una promessa. Mi romperó ancora il cuore per colpa dell’amore e ti racconteró per sempre alla mia bimba e a tutti quelli che, poveri loro, non ti hanno incontrata.

Dei due lati voglio guardare il migliore

Melissa
Questa bellissima foto l’ha ‘acchiappata’ Riccardo Marziali nei camerini di Orlando Furioso

Ci sono periodi della vita, anche piuttosto lunghi, nei quali sembra andare tutto per il verso sbagliato. Sembra che i Numi si siano accordati per metterti costantemente i bastoni tra le ruote e gli esseri umani si facciano complici perfetti di questo assurdo dispetto. Le bestie e le persone si ammalano, gli inghippi sul lavoro si moltiplicano, i brutti incontri diventano l’ordine del giorno e…una serie virtualmente infinita di cosiddette sfighe si abbatte sul tuo capo senza nessuna pietà. Ovunque tu vada, qualunque cosa tu faccia, sembra tutto destinato ad andare per il verso opposto a quello che tu desideravi.

Ecco. Questo è il lato peggiore, quella parte della medaglia nella quale non arriva la luce. Questo è ciò che vedrei se rimanessi ferma da questo versante delle mie sfighe a contemplare il lato buio della questione. Ma io son molto fortunata. Ho un cuore ipersensibile che si dilata e si restringe alla velocità della luce e ho sempre una enorme voglia di andare a trovare il punto in cui batte l’unico o l’ultimo raggio di sole che il mondo aveva a disposizione. Sono doppiamente fortunata perché sono indomabile. Non ci sono ostacoli che mi possano separare troppo a lungo dalla mia gioia. Certo, il fatto che la cana, the best gift ever, stia molto meglio, aiuta ogni ragionamento a essere orientato al meglio piuttosto che al peggio. Lei è il mio amuleto, la mia speranza, la compagna di una consistente fetta di vita; lei è la magia della pazienza e il miracolo della cura.

Ma non divaghiamo. Sta meglio e il resto lo vedremo cammin facendo. Quello che, invece, era urgentissimo dire riguarda questa cosa del bicchiere che può essere mezzo vuoto o mezzo pieno. Il pensiero mi ha avvolta qualche giorno fa quando, tornando dal supermercato alla fine di una di quelle mie infinite giornatine che ben conoscete, mi si è rotta la busta e tutta la spesa è finita rovinosamente per terra, sul marciapiedi, in mezzo a una folla di gente che non vi dico. Il latte di riso al cocco è praticamente esploso schizzando tutto intorno, la cioccolata fondente con le nocciole intere si è ridotta in poltiglia e così via. Era una di quelle scene che si possono solo commentare con un: “Ma sei davvero una sfigata, dai!”. Eppure…

Guardiamo da vicino la scena. La busta della spesa cade e il contenuto si rovescia rovinosamente, un ragazzo molto carino (e purtroppo accompagnato dalla fidanzata) si precipita a raccogliere la roba da terra, salvando anche buona parte del mio latte di cocco e dicendo: “Noooooooooo, mi dispiace, dai. E’ così brutto quando capita!”. Ragazzi, compassione di un estraneo? Ho vinto alla lotteria, e non è finita. Dopo che il prode cavaliere ha riposto tutto sulla panchina di fronte al bar nei pressi di casa nostra, io sto cercando di organizzare il trasporto di tutti quegli oggetti senza l’ausilio di un adeguato contenitore ma ecco che…una ragazza carinissima che stava distribuendo volantini pubblicitari, si offre di darmi la sua busta della spesa e insiste perché la tenga. Non c’è bisogno che la restituisca, mi ripete mentre mi porge la sacca di tela gialla, e sorride con un sorriso che mi apre il cuore. La rassicuro che gliela restituirò in brevissimo tempo perché abito al palazzo accanto e devo  solo salire un paio di piani. “Non si preoccupi, davvero”. “Torno subito con la sua busta. Ancora grazie. Lei è gentilissima”.

Ancora tu?
Una tipica Roberta che predica e pontifica, un pò pesantona. Sempre grazie a Riccardo Marziali.

Vado a casa. Ripongo la spesa sopravvissuta in cucina. Ripiego la busta giallo fosforescente. Scarto la cana che sta chiedendo cibo, ovviamente. La munisco di pettorina e guinzaglio e scendo a restituire il prestito. La ragazza è ferma sulla panchina e chiacchiera con una signora. Appena mi avvicino con l’accrocco canino al guinzaglio, mi sorridono come se vederci fosse una gran bella cosa. E, insomma, non si viene a scoprire che la ragazza è matta per i cani e che dopo aver perso il suo adorato bestiolino, ne ha adottata una con un sacco di guai perché malmenata brutalmente e…si…la busta si è rotta, il latte di riso al cocco è praticamente andato (ma non tutto), ma io son qui a chiacchierare e a sorridere e a compiacermi dell’esistenza di tanta bella gente e…non importa se ultimamente ho preso tante badilate sulla schiena…cioè…si che importa…ma conta di più il fatto che riesco a vivere dal lato luminoso delle mie tenebre.

Quando hai conosciuto il nero, la disperazione, la trappola, la via senza uscita, hai due alternative: puoi scegliere la via della luce o quella del lamento. Io ho scelto di stare affacciata alle finestre delle mie tempeste. E funziona. Sempre!

Stamattina usciamo, io e Cana, a fare la nostra ennesima passeggiata. C’è il sole, la gente ci sorride. Chiacchieriamo con le amiche di quartiere. Ci intratteniamo a raccontarci le reciproche sventure, ma con la forza di chi sa che stiamo sulla stessa barca e con la solidarietà e l’umanità di chi è capace di compassione anche verso degli sconosciuti. Qualcuna dice il mio nome ad alta voce. Non pensavo neanche lo sapesse. “Roberta, con il lavoro come va?”. Questa umanità esiste ed è questa la gente che voglio frequentare. Questo è il lato dal quale ho deciso di abitare.

E…sapete che vi dico? Se ce l’ho fatta io, siete tutti a cavallo!

Arabe fenici

Questa povera creatura, il mio amato flop, langue o languisce (come vi piace: son corretti entrambi) in un angolo remoto del web e della mia anima, da troppo tempo. Questo mio fogliolino bianco inesistente e prezioso, mi sta chiamando a sussurri e a grida perché torni a nutrirlo. Non bisognerebbe smettere di allattare ciò che è prezioso, ma come si fa? La vita è complessa, vorace, indomabile…almeno la mia. Se il ragionier Rossi o la signora Wanda, ammesso che esistano, non fossero d’accordo parlino ora o tacciano per sempre.

“E così si è rimessa a scrivere, dico, Floppartista. Non prima di avere resuscitato Cana per l’ennesima volta. Ah, la cana, hai saputo che è stata malissimo? Le scommesse la davano per spacciata eppure…quelle due ci devono avere un segreto. Ogni volta che sembrano finite si giocano l’effetto araba fenice. Mi sa che quando scompaiono per un pò è segno che sono andate a studiare a Hogworth”.

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15 Natali fa

Non ce li portiamo tanto male tutti questi natali spesi assieme, che dite? Lei ha la stessa faccia impertinente di quando, stamattina, rediviva da poche ore, ha svuotato il secchio dell’immondizia per andare a leccare il sale rimasto appiccicato sul sacchetto delle patatine. Il sale, capite? Praticamente un suicidio per una quadrupede che si è giocata ai dadi entrambi i reni! Eppure, stasera è passata dalla flebo al bordo della ciotola in 11 secondi. Siamo fatte così: siamo femmine inossidabili. Andiamo dritte alla meta: no perdite di tempo.

Mi mancate moltissimo e neanche vi conosco. Mi manca il tempo speso a riordinare i pensieri, le pause usate per dipingere meglio un’immagine a colpi di parole, le serate sorseggiando latte d’oro a scrivere e cancellare, cancellare e scrivere. Mi manca un pezzo. Mi manco. Ho nostalgia di me stessa, di quella parte di me che sa prendersi il giusto spazio e il proprio tempo. Ma sto facendo grandi cose, come al solito. Sposto montagne, riallineo pianeti e resuscito bestie. Ho due spettacoli all’attivo, allievi sparsi per la città, prove, video da montare, qualche danza, musiche da tagliare e cucire…treni, tram, automobile, piedi dolenti e kilometri macinati.

E chi l’avrebbe mai detto che, per dritto o per storto, mi sto prendendo tutto quello che voglio, dico, dalla vita. Ogni desiderio sta facendo il giro largo e io aspetto, non ho fretta e, pian piano, i premi scendono come una pioggia sottile e piacevole che cada sul viso inaspettata. Ho sempre un sottilissimo strato di calma e di fiducia a fare da cuscinetto alle mille traversie che siamo costrette ad affrontare. Stasera, poi, me la son cantata alla grande mentre lei, con le sue elegantissime mutandine fucsia, chiedeva dell’altro cibo. Mi son concessa un tango con il cesto dei panni puliti, mi son fermata a incantarmi di fronte alla luna sulla strada del ritorno, ho chiacchierato con amici incontrati per le vie del quartiere e con loro ho sorriso dei nostri guai. La luna stasera? Un incanto che non mi son persa. Ragazze/i, son davvero fortunata: non mi scappa nessuna meraviglia!

Tutto sommato bene, no? Volevo imparare ad andare a vela e son diventata la regina dei venti. Ho dovuto mollare tanta zavorra e mi è spiaciuto, ma credo che dio, la mia amica celeste, non voglia che perdiamo noi stessi per la salvezza altrui. Lei vuole che ruotiamo ognuno attorno al nostro asse senza mai perdere il centro. Vuole che siamo felici, tutto quà. Perché complicare sempre tutto, dai.

Adesso devo proprio andare. Gli occhi non ne vogliono sapere di rimanere aperti, ma mi ha fatto un gran piacere risentirvi. Prometto che torneremo presto. Abbiamo un sacco di cose da raccontarvi e mille novità all’orizzonte. Voi, intanto, fate sogni stupendi e realizzateli: non c’è alternativa!

Sarà mio questo tempo?

Queen Cana
La regina del tempo mai perduto!

Mi domando se il tempo, almeno il tempo, sia mio, anche se provvisoriamente, anche in prestito. Mi rimane del tempo per me? E per chi altri dovrebbe essere il mio tempo? A chi appartiene lo scorrere di atomi che mi ha scolpito le zampe di gallina attorno agli occhi, che mi disincanta? Di chi è questo fluire che ha ingrigito i peli di Cana e ha reso il suo sguardo più remissivo?

Mi domando se posso o potrò allungare un braccio, estenderlo al punto di acchiappare uno straccio di questo tempo che dicono sia mio, ma mi sembra rubato. Guardo la tazza di caffè, lo schermo del pc pieno di lavoro da fare da fare da fare e…da vivere quando? Ascolto il russare della bestia che vive con me e la lotta di quella che vive dentro di me. Guardo la tazza di caffè e desidero farci una nuotata, nel mio caffè caldo macchiato con bevanda di farro.

Mi tuffo nella tazza, ma lo schermo del pc, i promemoria, le agende, le bollette, i progetti, i sogni, il doveredoveredovere mi inseguono.They are very well trained. I’m not! Nuoto con poca convinzione nella tazza semivuota o semipiena, nella bevanda marrone chiaro. La cana fa un giro su se stessa, mi guarda, si appallottola e riprova a russare. La radio va, quella va sempre.

Mi domando, sempre più spesso, quando arriverà la pausa. Dove  si trova quel posto del mondo o di me stessa, meglio, nel quale non c’è più niente da fare, solo stare. La portiera chiede se voglio fare l’albero di Natale, ne ha uno in più, me lo da volentieri. Voglio? Son tentata di trovare un pezzetto di tempo per decorare un albero finto per…stare, guardare, annusare, essere inutilmente essere. Si, son tentata dall’albero, my own Christmas tree, ma non ho tempo. Potrei rubarlo o prenderlo in prestito? Non so.

Dottore, ricetta, analisi, memoria, teatro, lezione, telefono, mail, traduco, appuntamento, risposta, risposta, risposta…troppe domande e niente tempo. Che faccio, scendo? Lascio stare bollette e spese e doveri e vet e doc e mi metto a impastare una pagnotta enorme, fragrante, profumata, croccante e morbida, la inforno in un forno che non esiste e poi vado a dare le fette per strada a quelli che corrono per fare i regali, vado a dirgli che non serve niente a niente se ti prendono il tempo…

Chi ha tempo non aspetti tempo, ma io di tempo non ne ho disse la lumaca. Tra dieci minuti la cana deve uscire e ho una lezione, poi cerco parcheggio e la cana deve uscire ancora poi ancora lezione e così via. Troppo. E lei sta sognando. Corre. Chissà a che gusto sarà il biscotto che ha trovato, che stragi di polli e di salmoni sarà libera di fare nei suoi sogni.

Questo tempo, quello che mi è servito per far scorrere qualche parola fuori da me, questo tempo utile per decomprimere la mente e il cuore carichi di concetti inutili e assetati di ‘bene’, questo tempo l’ho rubato e la follia è che era mio. Ho rubato a me stessa.

Esco dalla tazza di caffè macchiato, raggiunta dai mangiatempo, e vado a fare una doccia perché non ho avuto il coraggio di prendere per me un pò di tempo che era mio, ma, nessuno sa come, non è mai riuscito ad appartenermi davvero.

Lei russa.

 

 

 

In diretta da Casilina

Non sono mai in anticipo, quasi mai in ritardo. Oggi sono in anticipo di quasi venti minuti. E ho fatto già tutto: mail, farmacia, benzina, non fumo più quindi non posso passare dal tabaccaio…

Ho un curry di verdure con basmati wild seduto al mio fianco qui sulla panda Camilla parcheggiata di fronte a una fermata del bus, La radio del tablet é sintonizzata su deejay. Era ora di Pinocchio e che fai te lo perdi? Anche se Pina sta in Giappone in vacanza, beata lei, Pinocchio é sempre Pinocchio. Non posso affrontare il traffico delle sei e trenta senza la gang di Pinocchio.

Abbiamo una riunione con Artisti innocenti per organizzare le prossime performance. Chissà che ci inventeremo. Sto cercando di farmi tornare la voglia di… la voglia e basta! Mi sono, peró, ricordata che da parecchio non “butto” un pó di tempo, non perdo più tempo.

E siamo impazziti? Marcel Proust ne ha fatto un capolavoro del tempo perduto. Perder tempo… che meraviglia. Intanto comincia il programma dei Vitiello e sento le storie buffe che raccontano gli ascoltatori. Ora mi metto comoda. Si sono appena accese le luci della sera e… non faccio niente. Ascolto, guardo, sto!

Ma lo sai che sta cosa é stupenda? La cana? A posto: uscita e cenata. Robe di lavoro? Fatto! Lavatrice? Rotta! Lavare a mano? Neanche per sogno! Premio fedeltá alla radio e rumori di auto e motorini che passano accanto a me. A volte biciclette zitte zitte quasi si attaccano allo sportello, qualche passante, qualche temeraria dello smog jogging, Beata lei, che coraggio! Lo schermo di un locale videolottery con i rimbalzi di Luci colorate che si intravedono dietro alberi di città…

Si, é stupendo. Posso non fare niente, ascoltare la radio, smettere di contrarre i muscoli o di digrignare i denti. Posso??? Siiiiii!!! Devo solo parcheggiare qualche decina di metri più avanti, ricordarmi di mettere il bullock non si sa mai con quelli che girano, caricare il mio mega curry, citofonare, ed é fatta. Sono arrivata. Non sono neanche costretta a pensare che al rientro non troveró parcheggio sotto casa. Se poi lo trovassi? E se non lo trovassi potrei prenotarlo in anticipo? No! Posso – davvero – rilassarmi??? Ebbene si. Tanto nessuno dei flop che mi cascano puntualmente sul cranio puó essere prevenuto. Non ci sono vaccini!

E allora godiamoci le pause!!! E adesso sono ufficialmente in ritardo!!!

Domeniche

Da bambina le domeniche erano calabresi: giornate di nonni, di crostatine alla fragola, di enormi paste ricoperte e imbottite di creme al burro, di torte moka, di cotolette, di frittelle, di patatine tagliate a mano, di messa delle dieci (consuetudine che papà non ha mai amato ne praticato: si andava con mamma e guai a fare arrabbiare Dio che si sarebbe accorto della nostra assenza);

fragole e panna
Ci tuffavo la faccia dentro. Non ero vegana, allora.

erano giornate di ‘bella mia’, di figurine da attaccare sull’album di Holly Hobbie, di passeggiate sul Corso Garibaldi (perché i Corsi si chiamano spesso Garibaldi?). A volte si andava in montagna, sull’Aspromonte, a mangiare il minestrone e a camminare nell’aria buona. Se c’era la neve io ero come un leone in gabbia: odio la neve. Soffro pure il mal d’auto. Figurarsi che tormento per una bambina stare sul sedile posteriore dell’auto che va in montagna…sulla neve! Ci sono cose che rendono patologico l’amore per la libertà!!!

Domenica scorsa era giornata di performance. Artisti Innocenti performavano per Short Theatre 2018, al museo Macro di Testaccio, nella Pelanda. Si tratta di un ex mattatoio, adibito a museo e ad università e con sale teatrali e spazi super cool di ogni genere. Prima di entrare nello Studio Uno, nel quale avremmo allestito per la performance della sera, mi son voluta perdere, per l’ennesima volta, in quel luogo carico di antiche sofferenze. Mentre mi guardavo attorno ho notato una insegna: spazio adibito alle ‘bestie domite’, non ho trovato quello per le bestie indomite: mi ci sarei infilata volentieri per vedere come lo avevano pensato.

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E’ uno spazio suggestivo e terrificante al tempo stesso.

Gli enormi ganci metallici,ormai arrugginiti, montati su carrucole, pendono su tutti gli spazi esterni e interni. Non credo che per il pubblico che affollava la manifestazione, questi ‘particolari’ fossero significativi. Io sono una rarità: ipersensibile e esagerata. Sento la sofferenza delle altre creature in modo eccessivo. A dire il vero, ultimamente, non sento più molto. Sono stanca di sentire, ma sto solo in pausa. Aspetto qualcuno degno di riabbracciare il mio sistema immunitario.

Quando ero bambina le domeniche avevano il profumo della perfezione. Se era inverno potevo guardare i film di Shirley Temple a ripetizione, sulla piccola tv in bianco e nero. Se era estate poteva succedere di andare con nonno alla casa al mare e di zappare l’orto, magari seminare qualche nuova pianta. In ogni caso, al mio paese, si vede il mare da tutti i lati. Non puoi perderlo.

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Vedevo la Sicilia e le Eolie: sembrava di poterle toccare.

Il mare delle domeniche d’inverno era il più diretto contatto con il sublime. La schiuma delle onde, vista in lontananza, non sembrava poi così minacciosa. Quelle domeniche avevano la farina sulla faccia dei bambini ammessi a pasticciare nelle cucine, odore di pane di montagna, integrale, di melanzane sott’olio tagliate a filetti sottili; erano domeniche per crescere forti, per fare scorta di amore e cibo buono. Poi qualcosa si è rotto: l’albero di Natale, la furia degli adulti, l’ignoranza, chissà. Ma quelle domeniche da bambina son rimaste di scorta per quando il buio si avvicina.

Queste domeniche quà, di performance, di prove, di pranzi al volo e di stanchezza, di corse a casa a far fare pipì alla cana, queste domeniche quà…non so…sanno di lotta prolungata troppo a lungo, di un entusiasmo sopito dalla fatica, con una me sempre onesta, per carità, ma che non da più a piene mani. Sembra che il tempo abbia gettato un velo, una sorta di opacità, sulla visione e sul desiderio. Performare, recitare, stare ‘con’ un pubblico, prevede onestà, nudità, generosità, apertura, desiderio di dare senza riserve. C’è stata tanta gioia, per carità, non lo nego, mentre ci aggiravamo con un sipario portatile a fare entrare e uscire la gente dalla tenda rossa, e mentre applaudivamo noi il pubblico che entrava in sala (vedeste che facce meravigliose che avevano), e mentre facevo sfilare un improbabile cappello che rappresentava i pini di Roma, e in moltissime altre occasioni della giornata.

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E poi…te la puoi tirare e andare a dire in giro che eri al Macro a fare la performer e che hai fatto il tutto esaurito…chi sa la verità? 🙂

Alla fine, però, rimango io, io che faccio mille lavori, io che ho mal di schiena per via del computer, e mal di gambe per via dei chilometri che percorro per passare da un lavoro all’altro e mal di testa perché mi sento in trappola e vorrei tornare a dire no e montare sulla vecchia Panda assieme a Cana e andare dove non so, ma andare…ché mi sento come se mi avessero messo le catene ai piedi e non mi riconosco nell’incatenata. Che noiaaaaaa!!! Mi sono annoiata da me stessa!!!

E allora torniamo a quelle domeniche da bambina, quando si faceva sera ed era ora di tornare a casa, quando si accendevano le luci della Sicilia e un fil di fumo si alzava all’orizzonte: era Stromboli che ci salutava dall’altra parte del mare. Quelle domeniche che son diventate anche le domeniche per andare al cimitero di Sinopoli a trovare nonno Mimì, a passeggiare tra le tombe di pietra e marmo e a chiacchierare con la presenza costante di chi c’era stato e adesso, semplicemente, aleggiava. Erano giornate nelle quali poteva capitare di andare a Cosoleto a trovare zio Stefano e zia Rosetta e lì c’erano le galline e i conigli e una grande casa nella quale la mia fantasia irrefrenabile ambientava storie di mistero e di amore. Lì c’era l’odore inconfondibile, dolce, del dopobarba di zio, lo zio Stefano con i grossi baffi a punta che pungevano quando ti dava il bacetto; lo zio con un sorriso magico. Erano domeniche di Paolo Valenti e Novantesimo minuto.

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Non ci sono stata negli anni Trenta, non fate gli spiritosi!

Tutti i bambini dovrebbero fare scorta di domeniche per i tempi bui, per quando avranno problemi sul lavoro; per quando, adulti, dovranno difendere i propri progetti dalla ferocia del mondo.

Queste domeniche, queste di performance e di procedere lento, son giornate per regalare sorrisi, per alleviare qualcuno in attesa di alleviare se stessi, per comprare la verdura al mercato bio, per fare la maschera idratante ai capelli, per chiamare un’amica che non senti da tempo, per fare quattro salti con Dolores, la bambola ballerina. Son giorni in cui sollevare il morale a persone amate solleva anche il mio, di morale. Son domeniche per tornare a godere le piccole cose, quelle minacciate dal tempo, dalla fatica e dalla ferocia di certa gente. Sono mattine che ti puoi concedere il cornetto vegano e al diavolo la dieta, frangenti per chiacchierare con gli sconosciuti e scoprire storie, per chiacchierare con vecchi amici che si ritrovano in occasione delle performance. Sono domeniche per spupazzare la cana e litigarci ancora più ferocemente quando si sdraia sul marciapiede e non sente ragioni: non camminerà, vuole tornare a casa. E tu, che eri uscita pensando che una passeggiata avrebbe fatto bene a entrambe, proprio tu, ti ritrovi a fare i conti con quello sprofondo che c’è tra il desiderio e la realtà. E…fatti i conti…in quel burrone c’è ancora abbastanza amore e ci siamo noi così come siamo e va bene così!

 

Natali

Questo raccontino non è nuovo o originale. Lo avevo pubblicato qualche anno fa sul vecchio blog e poi sulla mia pagina facebook. Ritrovandolo mi sono accorta del suo potere evocativo. Mi sono immersa nel profumo di chiodi di garofano e cannella, ho ricordato la mansuetudine che ti regalano l’amore e il tempo. Da ragazzi si danno per scontate tante cose, per fortuna.

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Chi la vede vince un premio : )

Da adulti e un pò vintage si apprezzano quelle cose scontate e si coltiva maggiormente la gratitudine, per fortuna. La nostalgia può essere un’ancora che ti lascia ferma in porto, oppure un propulsore che ti lancia verso il futuro, garantendoti il rifugio degli amori passati. Oggi che tanti esseri umani mi hanno delusa e tradita, ritrovo questi echi antichi come consapevolezza dell’amore ricevuto e della sua immancabile imperfezione. 

L’albero di mia nonna aveva palline di ogni colore, addobbi lanciati sui rami finti senza nessuna logica o gusto. L’albero di mia nonna era vecchio perché era lo stesso albero da vite addietro. L’albero di Natale di mia nonna aveva una lunghissima storia. Quell’albero prometteva moltissimo, tutti gli anni. Generalmente veniva addobbato nel ‘salotto buono’, quello che si apriva una volta l’anno per riunire tutta la famiglia. Era semplice la vita secondo mia nonna. La vita si doveva friggerla o, al massimo, farcirla. Io son così d’accordo con lei!

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Non posso mettere immagini natalizie: troppo banale. Lei è più bella. Sempre!

Il Natale a casa di mia nonna era pieno di promesse e di speranze. Non sono mai disattese le speranze quando puoi addentare le crocette di fichi secchi imbottite di noci.

Non sono mai disattese le speranze finché qualcuno ti prepara da mangiare e ti racconta una storia.

Dio veniva a trovarci mentre giocavamo a tombola con le cartelle di cartoncino. Purtroppo ci trovava distratti perché segnavamo i numeri con i fagioli secchi che cadevano rotolando sul pavimento e bisognava richiamare gli stessi numeri daccapo più e più volte. Mia nonna non perdeva mai la pazienza. La faceva perdere agli altri.

Mia nonna era terrena, forse la divinità della materia. Questo la rendeva divina nel nutrirci. Trascorreva intere giornate in cucina per assicurarsi di aver fritto davvero tutto il cibo che ci avrebbe servito. Il menù natalizio tipico comprendeva broccoletti, cotolette, crocchette, pasta al forno, polpette, patate fritte (ovvio), peperonata, salsicce, frittelle di carciofi, fagioli, tortellini anche e poi fritture miste e altri ‘contorni’ fritti. Seguivano dolci e spumante dolce. I miei zii e mio padre si lamentavano perché lo spumante dolce non è una roba seria. Lei rideva perché lo stress non era di sua competenza, aveva fatto il suo dovere, mantenuto tutte le promesse.

Non sai mai quanto ti mancheranno certe ‘stranezze’.

Casa di mia nonna a Natale profumava di spezie, chiodi di garofano e cannella, di pandoro appena scartato e di torrone di mandorle. Il torrone di mandorle lo faceva nonno. Lui con la materia non aveva attinenza, era filosofo, poeta, matto e medico. Il suo torrone, infatti, era divino e filosofico. Sapeva quanto zucchero, quante mandorle, per quanto tempo mescolare nel calderone di rame. Se eri fortunata lo trovavi all’ opera nei giorni che precedevano il Natale. Era intento a compiere la magia, con la testa china sulla pentola enorme, ma non negava mai una parola d’accoglienza alla bimba viandante che aspettava di addentare i minuscoli pezzi di paradiso croccante.

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Qui la si può ammirare in una versione molto natalizia.

Mia nonna aveva talento con i soldi. Si giocava a bestia e sette e mezzo nel pomeriggio di Natale. La nonna ripuliva tutti, figli e nipoti e non graziava nessuno. Poi, però, ci consolavamo con le zeppole.

Che Natale è senza le zeppole?

Ripiene di olive, pomodoro e acciughe. Io le preferivo senza le acciughe. Le zeppole fritte erano un’altra meravigliosa promessa mantenuta. Poi c’erano quelle vuote, modellate a ciambella, che indurivano presto, ma che goduria affaticarsi a morderle anche quando erano diventate un pò gommose. Il Natale era una promessa mantenuta, una bella storia raccontata a bassa voce, ci si poteva illudere che tutto sarebbe andato bene. L’odore di frutta secca, le spezie, il caffè già zuccherato erano ingredienti di una storia che solo noi sapevamo raccontare.

Per questo dovremmo conservarle le storie, per inventare un pò di gioia quando il tempo rischia di indurirci e la fatica ci maltratta il cuore.

L’ orizzonte

Il mare mi circonda. Abito in una torre sospesa sul mondo, giusto in faccia al mare. Odio l’ora di filosofia, non odio la filosofia. Al prof di matematica dico “Non ho capito, ripetiamo?”. Sempre. Odio la scuola, ma adoro i libri e sono curiosa come una scimmia curiosa. Ho un sacco di segreti. Nessuno sa veramente chi sono.

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Lo sguardo non ha ostacoli, nessun limite.

I miei superpoteri vengono dal mare, quello viola di casa mia, quello dove c’è uno scoglio sul quale cresce un albero d’olivo, quello aspro di rocce e scomodo, quello che mi ha insegnato a saltare da una pietra all’altra come fossi una capra di montagna. Non riesco a credere che ci siano posti del mondo dove non si vede l’orizzonte, non credo si possa vivere senza mare. Solo quando non l’ho più avuto, ho capito veramente cosa vuol dire avere o non avere orizzonte. Lo sguardo si perde e insegue immagini migliori di quelle reali; puoi immaginare e immaginare da forma alla realtà.

Io immaginavo palcoscenici e riflettori, pubblici plaudenti, viaggi con lo zaino sulle spalle, amori, danze tribali, arrampicate, libertà; libertà è il nome complessivo di tutti i miei sogni. Per farmi diventare matta e lanciare tutto all’aria e gridare come un’ossessa e minacciare provvedimenti definitivi, bastava darmi un limite, dirmi che quella tal cosa non potevo farla. Mi trasfiguravo. Sembravo il mostro dello schema finale dei videogiochi, quello che non bastano tutte le armi assieme a distruggerlo, quello che gli devi sparare dritto nell’occhio con una cerbottana. A me dovevi spararmi il permesso di fare ciò che mi saltava in mente. Nient’altro poteva placare il mostro.

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Zaino sulle spalle e via. Lei preferisce il divano di casa, ma fa sempre ciò che vuole, mai ciò che le viene chiesto. Somiglianze?

Patologicamente libera, mi disse la mia amica del cuore. Quando suo padre ci beccò in due sul motorino senza permesso, beh, la libertà dovette giustificarsi con tutte le meravigliose parole che la mia fantasia mi suggeriva. E quante riuscivamo a inventarne quando il prezzo era la libertà.  L’unica realtà virtuale cui potevamo accedere era quella che ci inventavamo e io ero talmente convincente con me stessa da crederci ciecamente ai parti della mia immaginazione. “Sai, è stata un’emergenza, perché la tale amica stava malissimo e la nonna aveva un’urgenza e il nonno …”. E lui, il papà simpatico e intelligente della mia amica, fa; “Pensi che sono cretino? Non lo fate mai più altrimenti la chiudo in casa per sempre”. Io mi rassegnavo? No, insistevo a raccontare l’improbabile storia e chiedevo di credere alla mia buona fede, inutilmente. Ho una inventiva smisurata, ma non sono in grado di mentire efficacemente, cioè…sembra ci sia qualcosa nel mio sguardo, nelle posture, che dice sempre la verità, a dispetto dell’utilità o del danno che questo mi possa creare. Sincera e libera? Alert!!! Pericolo pericolo pericolo!!!

Nessuno sapeva chi ero veramente. Avevo un sacco di segreti. Mi piacevano le persone. Guardarle, ascoltarle: soprattutto gli anziani.

Il paese sta a metà tra il mare e la collina, sospeso sull’infinito (chiedete a Leonida Repaci), è una torre al centro del mondo. Salita, discesa, salita, discesa e nuovamente salita: ci vuole il fisico giusto per muoversi a piedi e il ciclismo non è per niente adatto al territorio. Mi infilo tra i vicoli della vecchia Cittadella di Palmi

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Palmi vista dall’alto agli inizi del Novecento.

perché mi piace fermarmi a chiacchierare con le signore sedute sull’uscio a prendere il fresco, a sgranare fagiolini, a grattugiare pane raffermo. Hanno delle grosse ceste di vimini sulle gambe, strofinacci consunti. Spesso son vestite di nero, in un lutto ostentato perché sarebbe vergogna spostarsi da quel nero e accedere al futuro. Ci diamo del voi, ne del tu, ne del lei. “Che fate, signora?”, “Scorciuliu nu pocu i fagiolina, bella mia (sto sgranando un pò di fagiolini, tesoro)”. Bella mia, quello era un suono! In fondo lo sapevo che quello che aspettavo con ansia era il ‘bella mia’ alla fine delle frasi. Era l’appartenenza a una grande famiglia di sconosciuti, ma presenti, solidi, accudenti. Era una sorta di maternità globale dove tutti eravamo figli di tutte. Era un abbraccio aperto, sempre a disposizione. Era sentirsi al sicuro.

C’era l’orizzonte che prometteva un futuro e c’erano tanti ‘bella mia’ alla fine delle frasi che ti facevano sentire a casa, al sicuro.

Come per la cartella di mia sorella, non sono certa del motivo per cui mi vengono in mente questi ricordi. Faccio ipotesi. Ricordare come mi sentivo di fronte al mare, protetta, ma libera, mi fa sentire ancora quella sensazione di potere che danno amore e libertà. Lo avevo dimenticato. In fondo, devo ammettere che negli ultimi tempi ho perso un pò di smalto, ho lasciato andare quei sani slanci che mi hanno regalato tutte le mie conquiste. Devo avere pensato che volare basso fosse meno rischioso, ma è solo meno divertente. A quelle signore avrei voluto domandare cosa sognavano e se sono mai state libere di sognare da bambine, se lo vedevano anche loro quanta meraviglia ci circondava, se stavano bene lì a far da mamme e nonne a tutti noi oppure desideravano altro, se avevano mai messo in dubbio l’esistenza di Dio. A quella che faceva l’uncinetto, invece, domandavo: “Signora, mi insegnate?”, “Come no, bella mia. Venite quà che vi faccio vedere”.

Ognuno ha recitato il suo ruolo, anche se non ha pensato che avrebbe potuto sceglierne un altro. Forse è stato meglio così, perché c’era bisogno nel mondo delle mie signore Bella Mia. Io ne avevo bisogno!

 

 

 

 

Barcelonando (che si legge barseloneando)

Le città sono persone: hanno caratteri, colori, misure, stili, punti deboli e capelli differenti. Barcellona è una ragazza con l’ombelico scoperto, le scarpe da ginnastica, il bikini sotto agli short di jeans. Barcellona è un ragazzo con la barba lunga, le occhiaie e il piercing sulla lingua, lo skateboard sotto l’ascella e una bottiglia di birra in mano. Barcellona è una signora di origini asiatiche che parla un improbabile spagnolo, misto a catalano e ad accenti della sua lingua madre, che ti apre la porta di una camera d’albergo e finge di capire quello che le stai chiedendo.

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Mi ero persa nella calura della città e l’ho trovata lì, dietro l’angolo, ad aspettarmi: la cattedrale.

Barcellona è un signore dallo stomaco grande che fuma, ride e beve birra con gli amici, facendo proclami sul mondo e sulla vita in lingua catalana. Barcellona è di tutti e non è di nessuno. Alla fine della giornata ti lascia addosso un odore,un odore terribile eppure, in qualche modo, attraente. E’ odore di smog e mare, di promesse che non è riuscita a mantenere, di cucine internazionali e di scarpe da ginnastica. Orgogliosa del mio minuscolo bagaglio a mano, ci casco sempre: non bastano tre magliette per quarantotto ore a Barcellona. Quell’odore rimane attaccato ai tessuti in modo irreversibile. Ne servono sei di magliette.

Camminando per la città mi accorgo che sono costantemente in pericolo.  Sembra di stare nel remake di Blade Runner dove i replicanti del nuovo millennio non hanno più i piedi, ma si muovono solo su ruote.

Sento il rumore che si avvicina, ma non riesco a indovinare la provenienza e la traiettoria esatta. Sono pattini, monopattini, biciclette, skateboard, risciò. Sono ovunque, ti prendono alle spalle, non avvisano, non suonano, non rallentano, Arrivano a tutta velocità e devi stare attenta, sempre molto attenta. Tra il rumore dell’avvicinamento e il piombarti addosso l’intervallo è molto breve. Se non ti sposti in tempo è finita. E se non riesci a morire sotto le ruote di un replicante, puoi sempre provare a sederti a una fermata della metro, una qualunque e aspettare che la temperatura inumana ti finisca. Neanche un filo d’aria e la gente sembra assolutamente a proprio agio. Perché non circola un filo d’aria nella metro di Barcellona? Eppure la città si fa amare.

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Ah, quante promesse non mantenute, ragazza mia. Eppure non son riuscita a odiarti.

Perché le città son persone. Qualunque difetto abbiano, c’è qualcuno disposto ad amarle e questo è il bello. Ah, quante promesse avevi fatto, ragazza mia, ma non riesco a dimenticarti: non posso odiarti.  Basta il mare al tramonto, in un tramonto tardo che fa sguazzare i bagnanti alle nove di sera. E’ bastato mettere i piedi nelle acque di una spiaggia a Barceloneta, in mezzo a un vociare di gente differente, di ragazzi con e senza canna in bocca, con e senza jambè, con e senza radio a tutto volume, con e senza ciabatte; è bastato vedere la decadenza e la speranza fare il bagno assieme nelle stesse acque, per amare quella gioventù reale o immaginaria, quella speranza di futuro.

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Spiaggia di Barceloneta al tramonto e sto.

Una giovane famiglia si avvicina all’acqua: lui, lei, un tappeto di tatuaggi sulla pelle di entrambi, un bambino biondino con un taglio di capelli da moicano e un cane lupo che morde il freno per fare il bagno, un carrello pieno di roba da mare.  Voglio mangiare vegano. Ho fame e son sicura che troverò il ristorante che cerco senza l’ausilio del web, del navigatore, della connessione. Sono sconnessa, volontariamente persa,  non ho punti d’appoggio. Mi tuffo con il solo ausilio della mia mappa vintage, quella di quando scelsi la Spagna per scappare da una storia orribile, non una delle tante, ma la più brutta. Allora Barcellona mantenne la promessa. Mi rimandò indietro con un’altro cuore.

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La mappa vintage è diventata la mia guida per la Barcellona vegana.

Ho evidenziato tutti i posti nei quali voglio provare a mangiare. Ho percorso chilometri a piedi cercando certi ristoranti che poi non ho trovato e altri che non mi hanno delusa. né a pranzo, né a cena. Al Bar Celoneta ho mangiato il miglior tiramisù, row and vegan, della storia. Questa tappa aveva il vantaggio di trovarsi in riva al mare. La cosa buffa è stata domandare la strada ai gestori indiani dei negozietti di alimentari che stanno ovunque in quella zona e sentirsi dire che proprio non lo sapevano. E il posto era li, a pochi metri da loro. Alla fine ho trovato quello con senso dell’orientamento e consapevolezza della propria posizione nello spazio.

Ho mangiato un meraviglioso ed enorme cous cous con verdure e insalata di quinoa da Humus con il menù del pranzo a soli undici euro, compreso dolce o caffè.

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Menu a prezzo fisso di Humus. Grazie di aver cucinato piatti senza aglio: sono allergica!

Per caso mi sono imbattuta in un bioristorante con angolo veg, cenando con pizza  e dolce di cioccolato e mandorle superstrepitoso. Una soddisfazione unica, girare per questa assurda città e potersi strafare di cibo in versione vegetale. La prossima volta devo assolutamente assaggiare la paella e la tortilla vegane. Nel frattempo me le cucino da me!

Se le città son persone, Barcellona è una di quelle care amiche che vedi ogni tot di anni e ti vien da dire “Sei sempre uguale”, ma, nel frattempo lei, ferita e offesa, si è attrezzata con un nuovo taglio di capelli, un nuovo stile più appropriato ai tempi, una prospettiva di un’accoglienza ancora più grande.

Ma quella testa dura, incrostata di sale marino e di smog, quella chiusura, quella presunzione, le ha mantenute: fanno parte del suo fascino.

 

 

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