Ti cercavo tra la folla, accanto a me o dietro di me. Sapevo che non avresti dato un soldo alla mia causa, ma non importava. Ciò che davvero mi premeva era sapere che i nostri abbracci, le chiacchierate, i caffè, le tisane, le nottate, le chat, gli sguardi, la nostra relazione, con tutto ciò di sacro e di vitale che contiene, fosse lì. Contava sapere che il tempo e la passione scambiati, regalati, amati, desiderati…che fossero lì, nel cestino delle cose importanti, anzi di quelle fondamentali. Dove sei? Ho allungato ancor di più il collo. Mi sono estesa, alla mia destra, alla sinistra; ho guardato dietro di me. Niente. Non volevo guardare in faccia la folla che tirava le pietre. Fino all’ultimo istante ho pregato, non so chi, ma ho pregato forte, che tu non fossi seduto tra i sacerdoti del Sinedrio, seppur silenzioso, che tu non fossi tra la gente che lanciava sassi ai peccatori, seppur senza l’ombra di una pietra in mano. Ho chiuso gli occhi mentre arrivavano le pietre. Non sapevo neppure se mi avrebbero colpita o se avrebbero colpito qualcuno di quelli costretti a stare accanto a me. Io non avevo scelta. Quello era il mio posto. Tu, si, che potevi scegliere. Avresti potuto sussurrarmi all’orecchio le tue ragioni, con amore, senza dare neppure un soldo alla mia causa, ma saresti rimasto accanto a me e, forse, saresti stato colpito da qualcuno di quei sassi e ti saresti ferito: non per la mia causa, ma per amor mio, per amore della mia e della tua libertà.
Eppure ti ho avuto accanto, ci siamo scambiati sguardi e consigli, abbiamo vissuto ore e mondi. Era importante. Desideravo che ti indignassi per il trattamento da me subito, mentre mi sussurravi all’orecchio che la mia causa era la più grande ottusità della storia e che mi sarebbe costata la vita e che non volevi perdermi, che volevi avermi ancora accanto per secoli, a qualunque costo. Volevo il tuo fiato sul collo, magari che mi braccassi come un lupo affamato o come un licantropo, ma al mio fianco, seppur disprezzando la mia causa. Era cosa urgente, era cosa importante per rimanere umani, per rimanere nell’amore, per non cadere in quel gorgo che risucchia l’umanità degli umani per far sopravvivere esclusivamente un finto agio, agio che solo un’ élite può pagare.
Siamo arrivati nudi quaggiù, tutti. Ce ne andremo nudi, tutti. Arriviamo e partiamo nella stessa, identica condizione. Nel mezzo lasciamo tracce e quelle tracce sono semi. Io ci tenevo a lasciare il seme del nostro amore, ma adesso temo che si sia bruciato per l’incuria, per la mancanza di acqua e di sorrisi, per la negazione dello sguardo amorevole che tutto nutre. Certo, siamo sopravvissuti, entrambi, fino ad oggi e, fino ad oggi, nessuno potrà dire con certezza chi avesse torto e chi ragione. Probabilmente entrambi abbiamo torto ed entrambi abbiamo ragione. Non ci è servito. Non ha salvato il nostro amore. Perché di amore si trattava. Perché tu sei me e io sono te. Perché il torto che patisci tu è il mio torto. Ogni ingiustizia deve ferirci entrambi.
E poi ti ho visto. Ho visto te e visto lei e poi gli altri. Eravate in tanti e, certo, nello sguardo c’era l’amarezza profonda di chi si è amato e assiste impotente alla sofferenza altrui, ma non c’era neanche l’ombra di un’azione in mio favore, seppur disprezzando, tutti voi, la mia causa. Era giusto che io perissi con la causa. Così, mentre i sacerdoti del Sinedrio spiegavano le ragioni che io non comprendevo e il popolo lanciava pietre alla cieca, ho aperto gli occhi e ho provato disperatamente a continuare ad amarvi perché so come vi sentite, perché non sono la mia causa, perché sono me, ma sono te; perché da tutta la vita alleno la mia anima ad essere noi.
Ma non mi arrendo. Non è la mia causa che deve vincere, ma l’umanità che illuminerà la via di fuga da questo antro buio nel quale siamo finiti. Io sogno ancora di potervi amare nuovamente, un giorno, seppur disprezzando la vostra causa. Per adesso riposo, perché l’anima è stanca e la battaglia ancora lunga.