
Reinventarsi? A volte ho l’impressione di essere l’unica al mondo ad andare in pezzi, ad avere delle battute d’arresto. Forse lo crediamo tutti. Ma suvvia ragazzi c’è una pandemia in corso e io sono la sola a non aver voglia di reinventarmi, imparare un nuovo mestiere, una nuova lingua, sfornare tutto il giorno, riordinare, pulire gli angoli, dare una mano di vernice. E non è solo perché la maggior parte del mio tempo la trascorro, ovviamente, a prendermi cura di mia figlia. Io mi sento come il gatto dei cartoni animati quando gli cade sulla testa la cassaforte dal decimo piano. Stirata. Improvvisamente tutti sorridono e stanno facendo tutte quelle attività che rimandavano da una vita e ahhh finalmente cambieranno lavoro e faranno un lavoro fichissimo su zoom meetings o altre piattaforme e il mondo diventerà un posto soooo cooollll. Cinquantesimo giorno a casa con Sole. Cinquanta giorni della morte di Cana. Cinquanta giorni senza lavoro. Parecchi anni che son convinta che nella vita tutto ciò che accade sia un’occasione.
Il fatto è che io il mondo nuovo lo desideravo da un pezzo.
Già mi occupavo della cucina, ridipingevo le pareti, odiavo dover correre da un posto all’altro per mettere assieme il pranzo con la cena, amavo fare lunghe camminate e mi piaceva portare il cane a passeggio prima che potesse diventare una scusa per mettere il naso fuori da casa. Magari quella potenziale scusa fosse ancora con noi! Già lo sapevo che ci serve del tempo per vivere, per guardarci negli occhi, per stare con i nostri figli. Da un pezzo ormai combattevo per questa idea di vita. Mi piace dare il tempo a ciò che conta. E combattendo per vivere come desidero vivere ero già stanca da prima che il mondo impazzisse. Lavorare senza certezze, fatiche mai commisurate alle entrate, corse, denti sempre stretti…ma io mi ero inventata ed ero esattamente come ho sempre voluto essere. A dispetto di tutti i colpi che ho preso, ho mantenuto la rotta. E ne ho presi di colpi, anche bassi e bassissimi. Sbandavo e rientravo. Ma deve essere per sempre? Oltre all’entusiasmo delle nuove frontiere quando potremo permetterci di annaffiare con cura le nostre piante, antiche, sudate, desiderate? Non possiamo sempre spazzare via il vecchio. Qualcosa dovrà pur rimanere.
E così tutti si reinventano tranne me.
Io mi sento un po stupida e un po vecchia, per la prima volta in vita mia. Ci dovrà pur essere una, anche breve, fase di lutto, legittima, necessaria. Son sempre fuori luogo, inopportuna, disadattata. Ed è proprio così che voglio essere. E’ la mia specifica forma di adattamento. Il movimento virtuale che serpeggia sui social, le iniziative, i gruppi, i film, gli spettacoli, le conferenze e le webinar e via dicendo, tutto questo mi fa mancare il respiro. Mi sento sopraffatta e son solo io, mi domando? Non cerco neanche una vera risposta. Non mi importa. Anche fossi l’unica al mondo avrei il diritto di sentirmi così. Io vado letteralmente in pezzi e non ho nessun altro modo di rappresentarmi. Ed è un andare in frantumi di una donna matura, solida, che ha fatto tanta strada, che ha combattuto le sue battaglie e adesso avrebbe diritto a fermarsi e a godersi un po di frutto.
Io danzo
e basta. Non mi dedico ad altre attività di gruppo. A parte lo yoga di famiglia con mia sorella, ma quella è ben altra storia. Non voglio imparare niente. Danzo perché mi mancherebbe il mio corpo, il timone, la direzione. Danzo perché mi ancoro alla terra e mi estendo verso il cielo, perché così trascendo le pareti di questa prigionia, perché mi ricordo chi sono, perché mi è necessario, ne ho urgenza. Ho imparato a fare solo ciò che è urgente e necessario. Danzo perché mi riconosco in questa comunità di danzatori che cerca nel corpo il centro della propria anima. Danzo perché mi rimane questo per non perdermi. Danzo perché non ho nessuna altra voglia, perché potrei rimanere ferma a contemplare il mio vuoto per ore se non fosse per mia figlia che risveglia in me la meraviglia e la fiducia.
Mi manca e mi piace
quando mi siedo a scrivere perché ho avuto un’idea per il prossimo spettacolo, quando leggo un nuovo copione e poi scelgo l’evidenziatore per sottolineare le mie battute, quando i visi dei ragazzi si illuminano durante una lezione, quando il pubblico sta appeso alle mie parole e alle mie azioni, quando provo e riprovo, scrivo e riscrivo, immagino un gesto e un personaggio, straccio tutto e ricomincio daccapo, il corpo del pubblico, quello dei miei allievi, la sensazione di assoluta padronanza che non mi abbandona più quando faccio queste cose che i decenni e la determinazione mi hanno insegnato a fare bene, lo studio per una lezione perfetta, la visione del futuro, montare un video, registrare un audio, inventare una scenografia, fare le voci, trovare il modo di fare andare in scena tutti ma proprio tutti (ma solo se lo desiderano), la gratitudine dei genitori, l’applauso, il sudore, la chiarezza di idee che improvvisa appare sul montaggio di una scena, e quella padronanza che arriva dopo tanta ma proprio tanta fatica e dopo tanto ma dopo tanto tempo e che per il mondo non conta più niente. Io mi ero già inventata abbastanza e adesso ho un solo desiderio.
Vorrei tornare a casa.