Da bambina le domeniche erano calabresi: giornate di nonni, di crostatine alla fragola, di enormi paste ricoperte e imbottite di creme al burro, di torte moka, di cotolette, di frittelle, di patatine tagliate a mano, di messa delle dieci (consuetudine che papà non ha mai amato ne praticato: si andava con mamma e guai a fare arrabbiare Dio che si sarebbe accorto della nostra assenza);

erano giornate di ‘bella mia’, di figurine da attaccare sull’album di Holly Hobbie, di passeggiate sul Corso Garibaldi (perché i Corsi si chiamano spesso Garibaldi?). A volte si andava in montagna, sull’Aspromonte, a mangiare il minestrone e a camminare nell’aria buona. Se c’era la neve io ero come un leone in gabbia: odio la neve. Soffro pure il mal d’auto. Figurarsi che tormento per una bambina stare sul sedile posteriore dell’auto che va in montagna…sulla neve! Ci sono cose che rendono patologico l’amore per la libertà!!!
Domenica scorsa era giornata di performance. Artisti Innocenti performavano per Short Theatre 2018, al museo Macro di Testaccio, nella Pelanda. Si tratta di un ex mattatoio, adibito a museo e ad università e con sale teatrali e spazi super cool di ogni genere. Prima di entrare nello Studio Uno, nel quale avremmo allestito per la performance della sera, mi son voluta perdere, per l’ennesima volta, in quel luogo carico di antiche sofferenze. Mentre mi guardavo attorno ho notato una insegna: spazio adibito alle ‘bestie domite’, non ho trovato quello per le bestie indomite: mi ci sarei infilata volentieri per vedere come lo avevano pensato.

Gli enormi ganci metallici,ormai arrugginiti, montati su carrucole, pendono su tutti gli spazi esterni e interni. Non credo che per il pubblico che affollava la manifestazione, questi ‘particolari’ fossero significativi. Io sono una rarità: ipersensibile e esagerata. Sento la sofferenza delle altre creature in modo eccessivo. A dire il vero, ultimamente, non sento più molto. Sono stanca di sentire, ma sto solo in pausa. Aspetto qualcuno degno di riabbracciare il mio sistema immunitario.
Quando ero bambina le domeniche avevano il profumo della perfezione. Se era inverno potevo guardare i film di Shirley Temple a ripetizione, sulla piccola tv in bianco e nero. Se era estate poteva succedere di andare con nonno alla casa al mare e di zappare l’orto, magari seminare qualche nuova pianta. In ogni caso, al mio paese, si vede il mare da tutti i lati. Non puoi perderlo.

Il mare delle domeniche d’inverno era il più diretto contatto con il sublime. La schiuma delle onde, vista in lontananza, non sembrava poi così minacciosa. Quelle domeniche avevano la farina sulla faccia dei bambini ammessi a pasticciare nelle cucine, odore di pane di montagna, integrale, di melanzane sott’olio tagliate a filetti sottili; erano domeniche per crescere forti, per fare scorta di amore e cibo buono. Poi qualcosa si è rotto: l’albero di Natale, la furia degli adulti, l’ignoranza, chissà. Ma quelle domeniche da bambina son rimaste di scorta per quando il buio si avvicina.
Queste domeniche quà, di performance, di prove, di pranzi al volo e di stanchezza, di corse a casa a far fare pipì alla cana, queste domeniche quà…non so…sanno di lotta prolungata troppo a lungo, di un entusiasmo sopito dalla fatica, con una me sempre onesta, per carità, ma che non da più a piene mani. Sembra che il tempo abbia gettato un velo, una sorta di opacità, sulla visione e sul desiderio. Performare, recitare, stare ‘con’ un pubblico, prevede onestà, nudità, generosità, apertura, desiderio di dare senza riserve. C’è stata tanta gioia, per carità, non lo nego, mentre ci aggiravamo con un sipario portatile a fare entrare e uscire la gente dalla tenda rossa, e mentre applaudivamo noi il pubblico che entrava in sala (vedeste che facce meravigliose che avevano), e mentre facevo sfilare un improbabile cappello che rappresentava i pini di Roma, e in moltissime altre occasioni della giornata.

Alla fine, però, rimango io, io che faccio mille lavori, io che ho mal di schiena per via del computer, e mal di gambe per via dei chilometri che percorro per passare da un lavoro all’altro e mal di testa perché mi sento in trappola e vorrei tornare a dire no e montare sulla vecchia Panda assieme a Cana e andare dove non so, ma andare…ché mi sento come se mi avessero messo le catene ai piedi e non mi riconosco nell’incatenata. Che noiaaaaaa!!! Mi sono annoiata da me stessa!!!
E allora torniamo a quelle domeniche da bambina, quando si faceva sera ed era ora di tornare a casa, quando si accendevano le luci della Sicilia e un fil di fumo si alzava all’orizzonte: era Stromboli che ci salutava dall’altra parte del mare. Quelle domeniche che son diventate anche le domeniche per andare al cimitero di Sinopoli a trovare nonno Mimì, a passeggiare tra le tombe di pietra e marmo e a chiacchierare con la presenza costante di chi c’era stato e adesso, semplicemente, aleggiava. Erano giornate nelle quali poteva capitare di andare a Cosoleto a trovare zio Stefano e zia Rosetta e lì c’erano le galline e i conigli e una grande casa nella quale la mia fantasia irrefrenabile ambientava storie di mistero e di amore. Lì c’era l’odore inconfondibile, dolce, del dopobarba di zio, lo zio Stefano con i grossi baffi a punta che pungevano quando ti dava il bacetto; lo zio con un sorriso magico. Erano domeniche di Paolo Valenti e Novantesimo minuto.

Tutti i bambini dovrebbero fare scorta di domeniche per i tempi bui, per quando avranno problemi sul lavoro; per quando, adulti, dovranno difendere i propri progetti dalla ferocia del mondo.
Queste domeniche, queste di performance e di procedere lento, son giornate per regalare sorrisi, per alleviare qualcuno in attesa di alleviare se stessi, per comprare la verdura al mercato bio, per fare la maschera idratante ai capelli, per chiamare un’amica che non senti da tempo, per fare quattro salti con Dolores, la bambola ballerina. Son giorni in cui sollevare il morale a persone amate solleva anche il mio, di morale. Son domeniche per tornare a godere le piccole cose, quelle minacciate dal tempo, dalla fatica e dalla ferocia di certa gente. Sono mattine che ti puoi concedere il cornetto vegano e al diavolo la dieta, frangenti per chiacchierare con gli sconosciuti e scoprire storie, per chiacchierare con vecchi amici che si ritrovano in occasione delle performance. Sono domeniche per spupazzare la cana e litigarci ancora più ferocemente quando si sdraia sul marciapiede e non sente ragioni: non camminerà, vuole tornare a casa. E tu, che eri uscita pensando che una passeggiata avrebbe fatto bene a entrambe, proprio tu, ti ritrovi a fare i conti con quello sprofondo che c’è tra il desiderio e la realtà. E…fatti i conti…in quel burrone c’è ancora abbastanza amore e ci siamo noi così come siamo e va bene così!
Madonna che articolo malinconico… Nelle tue parole trovo molta affinità con le mie sensazioni di questo periodo. Stanchezza, fisica oltre che mentale, in fondo i cinquanta cominciano a farsi sentire, quella sensazione di perdere tempo, vivere un’esistenza tutto sommato inutile, a prescindere dalla famiglia, gli affetti più stretti. Un lavoro, nel mio caso, che é necessità e non passione. L’idea che il nostro piccolo sforzo per migliorare il mondo non serva assolutamente a nulla…
E sia quindi, rifugiamoci nel passato o nella fantasia, che questa non ce la toglie nessuno. Almeno speriamo…
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Noooo, non ci rifuggiamo. Ricarichiamo le batterie per non arrenderci, per fare nuovi progetti. La malinconia fa parte del pacchetto : )
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Vista così suona meglio!
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