Carissime mamme e carissimi papà di una creatura che soffre di Disturbo Borderline di Personalità (DBP), vi scrivo per raccontarvi una storia che potrebbe aiutarvi a navigare questo mare in tempesta. Non è facile parlarvi a cuore aperto: aprire questo argomento comporta il rischio di giudizi sommari, di incomprensioni e di frustrazione reiterata, ma non farlo sarebbe un’occasione sprecata. Mettermi nei vostri panni equivale a spogliarmi dei miei, anche solo per un breve periodo di tempo; è una sorta di triplo salto mortale con un retrogusto di tradimento della categoria.
So che molti (o, speriamo, solo alcuni) di voi penseranno che non sono genitore, che non ne so niente della vostra condizione (quante volte ho sentito ripetere questo genere di frasi?), che è facile parlare quando non ci sei passata.
Bene. Avete torto. Per comprendere una condizione umana, se la si vuole comprendere con tutto il cuore, non serve averla vissuta: serve la volontà di sentire sulla propria pelle ciò che è accaduto sulla pelle dell’altro e chi meglio di una persona che ha sofferto di un disturbo come questo, sa mettersi nei panni di chiunque? Il tempo e la lotta quotidiana ti fanno da maestri e, se sei fortunata come lo sono stata io, invece di farti avvizzire, ti allargano il cuore al punto che, anche se fa male, esso riesce a comprendere persino i nemici.

Oramai son diventata grande: userò anche queste sensazioni per farne qualcosa di costruttivo, come quel signore che riuscì a fare un’ottima torta usando le bucce di patate visto che si era in guerra e quello era l’unico ingrediente disponibile.
Io non avevo ancora compiuto diciotto anni quando mi son svegliata una mattina e il mondo era finito, il senso era finito, non avevo più futuro, possibilità, desideri, gioia. La cosa agghiacciante era proprio questa mancanza di gioia. Niente e nessuno riusciva ad accendere una fiammella nel mio cuore. Era tutto dolore, grigio, vuoto. Oggi, in mezzo a qualunque tempesta, pur essendo sfinita dal maneggiare una realtà complessa come quella del mondo in cui viviamo, non mi manca mai una scintilla di gioia. Come diceva la famosa nonna Gioia, appunto, tienine sempre un po’ di riposto; fatelo anche voi: ci sarà sempre il momento giusto per tirarla fuori.
Dicono che certi disturbi mentali (la definizione mi fa orrore, ma la uso per facilitare la comprensione), siano frutto della predisposizione genetica, sulla quale l’ambiente lascia un’impronta indelebile. In parole povere, noi tutti nasciamo con determinate inclinazioni che vengono favorite o bloccate dall’ambiente nel quale cresciamo. Fino a qualche anno fa mi battevo con tutte le mie forze contro questa visione che dava tanta importanza alla genetica, perché ci vedevo una condanna; la interpretavo come un’etichetta incollata sulla mia vita: sei nata malata. Oggi, che ho capito il vero senso di questa interpretazione, posso dire che è proprio il contrario.
Sei nata meravigliosa, unica e bellissima: ti servivano il terreno e le cure giuste per fiorire e dare frutto.
Anche voi, mamme e papà, una mattina vi svegliate e vi trovate di fronte a un’estranea che non sapete maneggiare, a un nodo di sofferenza che rifiuta ogni contatto e vi fa sentire impotenti. Lo capisco. Il senso di impotenza vi accomuna. Voi non sapete cosa fare per questi figli e loro non sanno che fare per se stessi. E si vergognano: sono malati, sbagliati, storti, deludenti, brutti. Credetemi: vorrebbero potersi sentire amati da se stessi e dagli altri, ma non possono. Non sentono il bene, non sentono i mali: sentono un dolore informe e costante. Tutto quà. Immaginate cosa voglia dire svegliarsi tutti i giorni nel dolore e andare a dormire nello stesso grigio, pregando che passi, che l’indomani ci si possa svegliare come prima, con la gioia di un nuovo giorno che sta per cominciare. Se odiassi qualcuno, potrei augurargli questo inferno.
C’è, però, una differenza fondamentale tra voi e i vostri figli: voi siete il giardiniere e loro il giardino. Le piante danno segnali più o meno chiari per orientarvi sui loro bisogni, ma non possono innaffiarsi, potarsi, curarsi da sole.Non possono prendersi responsabilità che sono vostre.

Ci ho pensato a lungo, per anni, mentre combattevo la mia battaglia e i miei giardinieri si lasciavano sopraffare senza ascoltare i bisogni della loro pianta più fragile. Diventare genitori (E si, lo so, ma che ne capisco io: l’avete già detto!) vuol dire accogliere ciò che arriva, farsi veicolo, navicella spaziale, per un’altra vita che farà il suo corso, prima o poi, indipendentemente dal punto di partenza. Vuol dire accettare che qualcuno dipenderà totalmente da te per alcuni anni e non puoi chiedere che sia di una marca o di un modello particolare. Sarà quel che sarà. Così ci saranno figli quercia e figli orchidea, piantine fragili dai fiori stupendi e alberi enormi e solidi dall’aspetto meraviglioso. I figli quercia avranno bisogno di molto poco, non vi faranno troppa fatica. Vi daranno grandi soddisfazioni. I figli orchidea vi metteranno alla prova ogni momento e potrete prenderli come una condanna o come una ricchezza: sta a voi. La fatica, la difficoltà, gli ostacoli non sono una punizione: sono il mezzo attraverso cui la vita insegna la strada verso se stessi e le piantine fragili danno frutti e fiori meravigliosi, ma a caro prezzo.
Ascoltare è la prima cosa. Imparare a sentire i bisogni nascosti dalle grida, dalle proteste, dai silenzi, dalle chiusure. Amare quello che c’è, così come è e stare a guardare senza manomettere niente, cambiare niente, forzare niente. Non pretendere che un figlio sia uguale all’altro: nessun essere umano si somiglia e, solitamente, i più complessi e difficili sono anche i più ricchi. Imparare dai figli senza l’arroganza, che è certamente desiderio di proteggerli, di indicare loro una strada unica e buona per tutti.I figli vi mostrano mondi che senza di loro non avreste mai visto e queste preziose visioni non sono gratis. O studi o lavori, questa è casa mia si fa come dico io, mi devi rispettare…no, non va. Rispettiamoci tutti, reciprocamente. Un giovane con un disturbo di personalità ha una disperata voglia di guarire, ma ha la testa talmente piena e talmente vuota allo stesso tempo, che non potete dargli degli aut aut. Niente dipende dalla sua volontà.
Ditegli col cuore: “Voglio solo che tu stia bene e, ti prometto, che assieme, prima o poi, troveremo una strada, un posto di questo giardino dove potrai fiorire come è giusto che sia. Sono qua per te così come sei e non mi sposterò fino a che servirà. Sarai tu a prendere il volo quando i tempi saranno maturi”.
Secondo voi non ne so niente dell’essere mamma, ma io credo di saperne moltissimo e anche dell’essere papà, compagna, infermiera, confessore, medico, terapeuta, migliore amica di me stessa. La bambina cicciottella, l’adolescente addolorata, la giovane confusa, la donna in tempesta, per tutte le me stessa possibili mi sono fatta famiglia sana e presente che se ne prende cura e che fa sì che io, così come sono e non migliore o peggiore di così, possa fiorire, compiere il mio viaggio, dispiegare il mio talento, amare ed essere amata.

“Quando la sofferenza diventa un seme di speranza: allora non è stata inutile e puoi dirla benvenuta”.