
Il terrazzo di casa dei nonni era il campo fertilissimo sul quale crescevano tutte le mie fantasie. Le mattonelline rosse, i tre gradini di marmo che salivano dalla cucina profumata di fritti e basilico, la porta di metallo con la grossa chiave fiabesca che si apriva su una stanzina-deposito zeppa di oggetti misteriosi e affascinanti (era così che mi apparivano), l’ enorme albero di magnolia i cui rami salivano dal cortile di una casa sottostante, i vasi nei quali facevo la caccia al quadrifoglio e quelli in cui io e nonno piantavamo i bulbi di tulipano per vedere poi le loro faccine rosse e gialle affacciarsi alla finestra della cucina; c’erano tutti gli ingredienti del Paradiso e tutti quelli dell’Inferno, su quel terrazzo, ma io gli inferni avevo imparato a negarli dipingendoli con i colori delle mie storie fantastiche. Il terrazzo di casa dei nonni, in un grande appartamento di un grande paese della Calabria molto meridionale, era la mia astronave incantata. E’ stato il mio primo palcoscenico e set cinematografico, il posto nel quale ballavo il valzer con i miei minuscoli piedi poggiati sui mocassini di pelle nera di nonno Mimì, quei mocassini che fasciavano l’alluce valgo del dottore. Salivo sui suoi piedoni e lui, canticchiando, mi faceva volare a suon di valzer la la la la un ta ta un ta ta la la la la.
Non è facile, con queste poche parole, farvi immaginare il mondo del quale vi parlo, delineare i personaggi con sufficienti particolari, dipingere l’atmosfera che mi circondava. C’era la mia tata, Melina, che viveva coi nonni. Era una vecchina profumata di rose o violette. Ve ne parlerò. Nonno era un meraviglioso medico con tanti capelli d’argento, ondulati e lucidi, con gli occhi verde azzurro dall’espressione dolcissima. Mimì (Domenico) aveva sposato Giuditta (Gioia), la mia nonna, donna alta, bella, prosperosa, una meravigliosa generalessa di un esercito invisibile. C’erano poi decine di figure di zii, zie, cugini, parenti, che ruotavano attorno alla casa dei nonni.
Fin qui ho semplicemente descritto il set nel quale fu recapitata la scatola piangente che la piccola Roberta tentò di salvare. Se non avete abbastanza fegato, cambiate canale. Questa è una storia molto triste, crudele come solo gli esseri umani sanno essere.
Spesso, nei paesi, il dottore si pagava con doni, perché le monete scarseggiavano. Questi doni servivano anche a mostrare rispetto nei confronti di un uomo il cui intervento sollevava dalle sofferenze e, qualche volta, guariva. Bisogna considerare di che cultura parliamo. Il medico è lo stregone onnipotente e l’Universo intero deve chinarsi alla supremazia dell’essere umano. Gli uccellini si sdraiano sulla polenta, le galline fanno il bagno nei brodi di Natale, i topolini appena nati si schiacciano con le ciabatte, i toponi mangiano bocconi avvelenati, i bambini spennano le beccacce appena cacciate, i maiali si uccidono in pubbliche corride per festeggiare l’anno nuovo, i capretti si immolano per la Santa Pasqua. Tutto quell’orrore, praticato dalle meravigliose persone che mi nutrivano,amavano, sorridevano, proteggevano; tutto quell’orrore finì per sembrarmi inevitabile. Non avevano via d’uscita, credevo.

Il periodo precedente la Pasqua era quello più prodigo di regali di ogni genere. Arrivavano tanti pacchi, di varie dimensioni, e cesti pieni di ogni bendidìo. Il campanello non aveva pace. ‘Chi è?’. ‘Ho una cosa per il dottore’. Aprivamo, prendevamo ciò che ci consegnavano e archiviavamo quei doni, via via che arrivavano, nei luoghi più appropriati.
‘Chi è’, disse Melina poggiando l’orecchio sulla porta di ingresso. Io avevo pochi anni e la seguivo ovunque. Ero la sua piccola ombra a pallina. Soffrivo già di incubi orrendi e non mi era mai cresciuta la pelle, ma con lei mi sentivo al sicuro. Avrebbe ucciso per difendermi. ‘Devo consegnare una cosa per il dottore’. Era la voce di un uomo anziano. Melina aprì la porta e vedemmo l’uomo che reggeva una grossa scatola di cartone bianco chiusa con uno spesso filo di spago.
L’uomo poggiò la scatola ai nostri piedi, disse il nome di chi la mandava, salutò e andò via. La scatola piangeva. Si, avete capito bene: piangeva. Era un suono terribile, un lamento insopportabile, la voce di un neonato…Pensai che ci avessero messo un bambino nella scatola. Non sapevo ancora da dove venissero i bambini. Immaginai che fosse per me, quella creatura, che mi avessero mandato un bebè vero da nutrire e coccolare, da tenere al caldo e al sicuro.
Il lato superiore della scatola non era perfettamente chiuso. C’era una fessura. Io ero abbastanza bassa da spiarne il contenuto. Vidi due occhietti azzurri, di un azzurro commovente. Rimasi immobile. Erano stupendi. Erano per me. Mi avevano mandato un cucciolo di qualcosa e sarebbe stato sempre con me. Gli occhi azzurri continuavano a piangere e piangevano da strappare l’anima.
Melina trascinò la scatola sul terrazzo, borbottando. La poggiò violentemente sulle mattonelline rosse. Perché stava facendo così? Lei che mi accudiva con tanto amore, stava trattando il mio cucciolo con tale violenza? Non sentiva che il bambino aveva bisogno di noi, delle nostre cure? Che piangeva?
Qualcosa non mi tornava.
Melina borbottò, borbottò e borbottò ancora, usando parole incomprensibili, forse perché non voleva che la comprendessi, forse perché stava cercando di proteggermi. Una frase, però, fu chiarissima, tanto chiara da segnare un prima-e-dopo della mia vita. ‘Adesso questo lo devo portare a Felice (il macellaio di fiducia dei nonni), amaru capretteiu (povero capretto), nci penza iddhu mu mmazza (ci pensi Felice ad ammazzarlo!’).
Ci pensò Felice ad ammazzarlo!
“Qualcosa non mi tornava.”
Esatto. Questa frase dice tutto.
Grazie di questi ricordi condivisi.
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